“ E quindi uscimmo a riveder le stelle”: con queste parole, Dante, dopo essersi inabissato nella fossa delle Marianne e aver narrato le volgarità e l’immoralità umana, lascia alle sue spalle il buio infernale e si accinge a scalare la montagna della speranza, della redenzione e della luce.
Quando, anche noi, riusciremo a riveder le stelle, uscendo dal buio dell’ignoranza che ci sta circondando, dalle tenebre del male, che cerca di prevaricare il bene, riuscendo solo a lambirlo, e dalla cattiveria, che cerca di conquistare spazi sempre più ampi?
Nei momenti di scoramento, di complessità, di contrarietà, come quelli che stiamo vivendo, questo verso può divenire il nostro amuleto, che alimenterà la speranza del superamento degli ostacoli esistenziali, che cercano di impedire e di ostacolare il nostro cammino nella strada della vita.
Dante, come tutti sappiamo, all’inizio dell’Inferno, incontrò le tre fiere, le tre bestie feroci: la lonza, agile, snella ed elegante, il leone, possente con il suo fisico, che incute timore, la lupa, inquietante con la sua magrezza, con la sua voracità e con la sua irrequietezza.
Nel passato si riteneva che rappresentassero, allegoricamente, la lussuria, la superbia e l’avarizia, oggi si è più inclini ad associarle con la superbia, l’invidia e l’avarizia, ma c’è anche chi le identifica con la frode, la violenza e l’incontinenza, intesa come non capacità di sapersi moderare, che altro non sono che le tre categorie del peccato, precipue dell’etica di Aristotele, sulle quali Dante aveva fondato i peccati dell’Inferno.
Ma il poeta centra, maggiormente, la sua attenzione sulla lupa-avarizia, radice di tutti i mali in quanto causa prima del disordine politico e morale che regnava in Italia all’inizio del Trecento, in un clima di generale corruzione e dissolutezza dei costumi, di cui è simbolo del resto anche la selva stessa (qualche analogia contemporanea?).
La lupa si rivela un ostacolo arduo per il pellegrino Dante che, nuovamente, indietreggia nel fondo della selva, vittima di un ulteriore peccato di cui è investita l’umanità intera in quanto tale: la cupidigia.
Non solo l’assiduo desiderio di denaro, ma anche quello di onori e beni terreni costituiscono un vero e proprio impedimento dal quale è difficile liberarsi, data l’istintiva propensione umana ad attaccarsi con insistenza ai beni terreni che, nostro malgrado, un giorno, dovremo abbandonare, per cui varrebbe la pena chiedersi se è così necessario affannarsi tanto.
Al verso 53, del primo canto, compare la parola paura: proprio la lupa, quella che molti aveva già fatto vivere di stenti, sta procurando angoscia e suscita terrore per il suo aspetto.
Si tratta di una bestia insaziabile e irrequieta, la cui avanzata lenta dissuade Dante dal proseguire il suo viaggio, ma noi non dobbiamo farci dissuadere dalla paura e da chi la sta utilizzando per farci desistere dal nostro cammino verso la verità e la luce per cui, quando, anche noi, usciremo dalla “selva oscura” e perché la stiamo attraversando?
Forse perché era necessario, come per il sommo poeta, compiere un percorso di espiazione e purificazione morale, per liberarci dal peccato e poter attingere alla beatitudine e alla salvezza?
O forse perché tante cose non stavano più funzionando già da molto tempo, ma facevamo finta di non vederle per cui, si è resa necessaria l’invasione di un nemico invisibile, per toglierci i paraocchi.
Ed è in quel momento che abbiamo visto che cosa avevamo seminato, per cui ci siamo metaforicamente “rimboccati le maniche” e abbiamo cercato di capire, di comprendere, di conoscere perché, come si suol dire, “ la legge non ammette ignoranza”, e questo ci ha permesso di accogliere, di accettare e, ora, dobbiamo fare il passo più difficile, Perdonare, perché solo così potremo uscire dalla “selva oscura” e rivedere le stelle di un Nuovo Mondo, fondato sulla Gratitudine, sulla Gioia, sul Rispetto e sull’Amore.