Negli anni ’80, Giovanni B. Cassano, definì la depressione “il male oscuro”, indicando con questa affermazione quella precipua condizione fisica e psichica di coloro che vivono uno stato di apatia e tristezza quasi perenne o comunque alternato a periodi di iperattività e che percepiscono un senso di inadeguatezza in quasi tutto quello che fanno. Oggi, questa asserzione, potremmo utilizzarla anche per indicare l’attacco di panico, “il male oscuro” del XXI° secolo, vista la frequenza, la facilità con cui insorge, senza il bisogno che l’individuo si trovi in situazioni di stress, e l’estensività.
Il DSM4 definisce l’attacco di panico come “un periodo distinto di intensa paura o disagio“, accompagnato da almeno quattro sintomi somatici o cognitivi quali, tra gli altri, palpitazioni, tremore, tachipnea, sudorazione e senso di soffocamento.
L’attacco di panico è la paura di aver paura … è la paura di impazzire …è la paura di morire…ma quale polarità dentro di noi prova questa emozione?
Sarà la nostra polarità adulta o il nostro/a bambino/a bisognoso/a che utilizza questo mezzo estremo per farsi ascoltare, perché fino a quel momento tutti i suoi appelli sono stati disattesi?
“Francesca ha 30 anni, conosce molto bene l’inglese e, proprio per questo, lavora come impiegata presso un’azienda che commercia con l’estero. La sua famiglia d’origine è composta dai genitori, dal fratello più piccolo e dalla nonna (il nonno è morto due anni fa). Quando rientra dal lavoro va a casa della nonna, per non lasciarla sola, mentre il fratello vive in casa con i genitori. Otto anni fa è stata lasciata dal fidanzato, dopo una relazione durata molti anni, ma i suoi attacchi di panico erano già iniziati un anno prima della fine della loro storia. Il periodo successivo alla rottura inizia a spendere in modo smodato e irrefrenabile, tanto che inizia a prendere di nascosto oggetti di valore nella casa familiare e a venderli; questo farà insorgere in lei un grande senso di colpa. Quando decide di iniziare il suo cammino di crescita lo fa perché si sente bloccata, non perché ha gli attacchi panico..”
Francesca può essere presa come l’emblema di tutte quelle persone che vivono questa condizione, ma che tendono quasi a tenerla nascosta, come se se ne vergognassero, come se fosse un qualcosa da rivelare a pochi intimi, alimentando ancora di più la loro “panic room”, negando a se stessi il disagio emotivo che si cela al suo interno, pensando magari che questa non sia altro che la sintomatologia che precede un disturbo cardiaco, polmonare o cerebrale.
Ma come mai adolescenti, giovani e adulti soffrono sempre di più di questo disturbo, tanto da poterlo definire “la sindrome espansiva del Terzo Millennio”?.
Le ragioni possono essere ricercate nell’ ambito sociale, all’interno di quella condizione di perenne incertezza e instabilità in cui vive l’individuo, sia sul piano lavorativo che scolastico, dove si richiede sempre e soltanto la perfezione, l’eccellenza ma, soprattutto, all’interno del nucleo familiare, dove la mononuclerità ma, anche, la diade genitoriale generano la perdita energetica di una parte di sé, dal momento che è sempre più presente la predominanza di una delle due figure parentali, provocando uno sbilanciamento energetico, che nel tempo produce i primi campanelli di allarme, come quelli che noi percepiamo come piccoli dolori fisici (mal di testa, senso di vertigine,astenia, difficoltà digestive, colite…), mentre in realtà sono le prime forme di comunicazione del nostro corpo (questi diviene il mezzo attraverso il quale il nostro Bambino bisognoso cerca di parlare con noi), che sta cercando di dirci che dietro quel fastidio si cela un’emozione, la paura, l’ansia, la rabbia, la tristezza, la vergogna… ma noi facciamo i cosiddetti “orecchi da mercante”, pensando di risolvere il tutto con una pillola, ma non è così, le sofferenze dell’anima hanno bisogno anche di altro per essere lenite.
Il nostro Bambino interiore, bisognoso di affetto, di attenzioni e di essere sostenuto, che custodisce queste sofferenze e i ricordi più profondi, dinanzi a questo nostro atteggiamento si sente ancora più solo, più incompreso, non accudito, al punto che per farsi ascoltare non ha altro strumento che quello di crearci un grande disagio, costringendoci a fermarci, ad ascoltarci.
Quando si verificano queste dinamiche il nostro Bambino diventa sempre più ansioso e impaurito, perchè continuamente sottoposto a frequenti sollecitazioni, e più queste aumentano più noi continuiamo a rinnegarlo, perché siamo soliti attribuirgli tutta una serie di accezioni negative, senza voler cogliere quei messaggi positivi che questo racchiude, primo fra tutti il bisogno di proteggerci, di rispettarci e di farci rispettare, in una parola di AMARCI.
“Francesca si trovava nella casa in affitto di Roma (frequentava l’università da tre mesi), quando ha avuto il primo attacco di panico. Era a letto con il fidanzato, all’improvviso ha iniziato ad avvertire agitazione di stomaco, poi un senso di soffocamento alla gola e da ultimo le gambe rigide. Da quel momento gli episodi hanno iniziato ad essere molto frequenti. E’ stata in cura da uno psichiatra per un anno, poi ha deciso di interrompere le sedute e gli psicofarmaci, perché non vedeva “grandi giovamenti” per cui, ciclicamente, lei continua a vivere questo disagio fisico, che non le consente di fare progetti a lungo termine”.
La prima volta che Francesca è venuta a studio aveva il volto sorridente, ma gli occhi tristi, e quando ha accennato al disturbo lo ha fatto sorvolando, quasi volesse far scivolare via quelle parole, ma quello che più è interessante è stato il fatto che teneva gli occhi bassi, forse per paura di vedere riflesso nel mio sguardo il suo panico (atteggiamento analogo hanno avuto altri clienti).
In questi casi è fondamentale aiutare la persona a conoscere il significato positivo di quel disturbo attraverso il ripristino dell’autopercezione, in quanto si è verificata una “prevaricazione” del Sé Razionale, tutto concentrato sulla mente, o di quello Disponibile, sempre pronto ad aiutare gli altri, ma non se stesso, che nel tentativo di non far entrare l’individuo in contatto con il suo Bambino Bisognoso, che custodisce il ricordo delle più grandi ferite, tende a minimizzare il sintomo, facendo perdere il contatto con il corpo fisico.
Questo contatto può essere raggiunto chiedendo di pensare ad una parte del proprio corpo,il cuore, la pancia, i polmoni, lo stomaco, le gambe…, di visualizzarla e di sentire le eventuali sensazioni che riceve da essa, in questo modo si favorisce la riapertura del dialogo con la sua famiglia interiore, e al termine gli si chiede di rappresentare iconicamente ciò che ha provato, facendogli osservare attentamente il frutto del suo lavoro, chiedendogli anche di commentare: ai nostri Bambini interiori piace moltissimo il disegno (la pittura, le matite ad olio o a cera in particolare), lo prediligono, è il modo attraverso il quale riescono ad esprimersi con assoluta libertà.
L’autopercezione deve essere vista come l’inizio del cammino verso la consapevolezza, per questo è necessario prestare attenzione alla gradualità della tecnica del Voice Dialogue, in quanto è fondamentale non far scattare nella persona il suo Giudice Interiore, che potrebbe definire il Facilitatore “uno stregone che vuol fare delle magie” ma, anche, il suo Critico che potrebbe denigrarlo affermando che “è il solito cretino, che si lascia abbindolare dal primo che passa, e che non capisce come mai non si rende conto che quello pseudo psicologo gli sta dicendo una marea di stupidaggini, senza alcun fondamento scientifico (in questo supportato dal sua parte razionale).
Proprio per questo, per favorire la separazione fra le polarità che hanno protetto l’individuo e quelle che sono state rinnegate, nei primi tre, quattro incontri, è preferibile fare delle triangolazioni, far riflettere sui messaggi energetici dei propri sogni o stilare il proprio genogramma, prestando particolare attenzione alla Visione Lucida, che può essere fatta anche se non c’è stato lo spostamento fisico, ma costituisce un momento importante per favorire il contatto con sé stesso, facendo rivivere ciò che è emerso, per poi passare alla seduta con lo spostamento del cliente.
“Facilitatore: “Per favore Francesca mi dai l’opportunità di poter parlare con la tua parte bambina, che tu avverti sulle gambe, per darle la possibilità di esprimersi e di dire ciò che le preme?
Francesca: “Certo”
Francesca si sposta lentamente sul lato sinistro della stanza, andando ad incastrarsi fra la porta e la parete, in modo da avere le “spalle coperte. L’energia inizia a parlare mentre io incomincio a vedere due figure una dentro l’altra: l’alone della Francesca adulta e quello di una bambina molto piccola. Alla domanda da quanto tempo stesse con lei risponde “Da sempre, da quando è nata”.
Facilitatore:”Sei tu che le fai avvertire il senso di soffocamento e la rigidità alle gambe?”
Bambina bisognosa: “Certo, era l’unico modo per farla crescere, per farle capire che anche se si atteggiava da adulta vissuta lei aveva bisogno della protezione della sua famiglia e che non era in grado di fare tutto da sola? Per cui quando aveva dei problemi doveva chiedere aiuto, invece di fare l’orgogliosa e l’indipendente.
Facilitatore:” Tu hai bisogno di questo! Forse quando Francesca ha preso la decisione di andare a vivere a Roma ti sei spaventata. Hai cercato di farglielo capire?”
Bambina:”Si, le ho fatto venire il mal di stomaco, l’ho fatta sentire stanca, ma lei non mi ha ascoltata”
Facilitatore”Questo non ha fatto altro che aumentare la tua paura (l’energia annuiva e aveva le braccia e le gambe incrociate, oltre ad avere le spalle chiuse verso l’interno, in segno di protezione), per cui ogni volta che lei decideva di uscire la sera, oppure andava all’università, in un ambiente che tu non conoscevi, non ti sentivi tranquilla, protetta”
Bambina:”Proprio così! E poi quel suo ragazzo che anziché sostenerla le si è appiccicato addosso”.
Francesca per sfuggire da una famiglia iperprotettiva, che non le aveva neanche consentito di fare l’esperienza di cadere, quando aveva iniziato a muovere i primi passi, aveva cercato di tagliare il cordone ombelicale in modo troppo repentino, per cui l’attacco di panico celava il bisogno di essere aiutata nel suo processo di indipendenza, nel suo bisogno di libertà. Il suo Sé Orgoglioso aveva coperto questa sua necessità, non gliel’aveva fatta ascoltare, favorendo l’insorgenza del disagio, a ciò si era aggiunto un compagno di viaggio che si era aggrappato a lei, senza darle niente in cambio, almeno in profondità, per cui la sua bambina che aveva bisogno di essere aiutata a crescere non ce l’aveva fatta più a sostenere il peso della situazione (il fratello, quando per motivi di studio si era allontanato dalla famiglia aveva vissuto una situazione analoga sviluppando però forme depressive).
In tutti quegli anni dentro di lei c’era stato uno scontro fra la sua parte Indipendente, che voleva affrancarsi da una madre protettiva, che nel contempo però era colpevole di non aveva saputo saziare il bisogno di affetto e di avere una famiglia, del bambino bisognoso, proprio perché lei “il senso della famiglia non l’aveva mai percepito”, dal momento che c’erano anche i nonni, i quali si intromettevano nelle discussioni genitori/figli, mentre avrebbe preferito non avere e subire intromissioni per cui, la sua “fame di coccole” insoddisfatta, nel momento in cui si è allontanata dalla famiglia ha iniziato ad emergere sempre con più forza.
Ma l’attacco di panico non è solo questo, bensì nasconde anche il bisogno di essere accettata, come nel caso di Daniela (30 anni), che era stata rifiutata dal padre, ancora prima che nascesse, cela il bisogno di essere sostenuto, come nel caso di Enrico (19 anni) che, in seguito al trasferimento dei genitori, scopre di avere un padre assente e una madre troppo presa dal lavoro per esternare il suo amore al figlio, o il bisogno di essere protetta di Anna (40 anni) da un padre che, per spingerla all’indipendenza, non si rende conto che non le offre quegli strumenti e quell’aiuto che le consentiranno realmente di esserlo…in una parola racchiude la necessità di essere visti, dagli altri ma, anche, e soprattutto da se stessi.
E’ proprio per queste motivazioni che l’attacco di panico non deve essere visto solo come una “malattia” da curare, bensì come un’opportunità per attuare un cambiamento necessario (noi siamo soliti pensare che questo disagio arrivi per farci stare male, in realtà il nostro Bambino/a Bisognoso/a lo fa insorgere solo perché vuole che ci rendiamo conto che è il momento di ricreare l’equilibrio che è andato perduto), che ci renderà più autentici e veri attraverso la capacità di stare nel dolore, attraverso un ascolto attivo della difficoltà, che può essere messo in atto attraverso l’assunzione di una posizione in cui stare comodi, magari anche la classica posizione fetale, mettendo da parte il nostro Sé Giudicante, che avrebbe sicuramente da dire la sua, per poi cercare al nostro interno un’”isola dove non c’è dolore” e stare lì, pensando che quello è l’”eden” in cui ci possiamo rifugiare tutte le volte che ne avvertiamo la necessità.
Questo può essere visto come uno strumento per dare a chi ci chiede aiuto ma, anche, per darci la possibilità di riappropriarci della nostra capacità di autoguarigione, associandola al bisogno di riprendere a fare progetti, non a lungo termine, bensì brevi, immediati, facendo divenire il “carpe diem” latino il primo punto di un decalogo ipotetico, che accompagnerà questo processo di crescita, ponendo al secondo la capacità rousseniana di “perdere tempo per guadagnare tempo”, perché non c’è bisogno di fare, di agire, per stare bene, anzi è preferibile saper stare per guardarsi dentro, perché la guarigione è dentro di noi .
Edi Salvadori